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LA FLAGELLAZIONE

Uomo dei dolori che ben conosce il patire

 di p. Cesare Cuomo icms

La flagellazione rappresenta uno dei momenti più drammatici della Passione di Gesù.

Il “flagellum” non era una semplice verga, ma una robusta frusta con molte code di cuoio, le quali venivano appesantite da pal­le di metallo, spesso armate di punte aguzze. Presso i romani, Il numero dei colpi era lasciato all’arbitrio dei flagellatori e alla resistenza del paziente. Tutto il corpo di Gesù fu colpito selvaggiamente. Lui, che si era manifestato come il volto umano della Misericordia divina, curando ogni sorta di infermità fisica e spirituale, non trovò, invece, nessuna pietà per sé. I soldati incaricati di batterlo sfogarono su di Lui, con inaudita ferocia, tutta la loro rabbia, come spesso succede quando l’uomo sa che può sfogare impunemente tutta la sua cattiveria su chi si trova in condizioni di debolezza e non può contare su nessuno che lo difenda. In questo caso, però, la crudeltà raggiunse livelli inauditi, come ci aiuta a immaginare la Sacra Scrittura, poiché se il Salmo 44,3, con riferimento al Signore Gesù recita: “Tu sei il più bello tra i figli dell'uomo”, il Libro di Isaia, così lo descrive nella profetizzando la sua Passione: “Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per potercene compiacere. Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia, era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima” (Is 53, 2-3).

Le forze del male, che non sopportano tutto ciò che ha a che vedere con la purezza, la bontà, la mansuetudine e la giustizia, riunendo insieme la loro carica aggressiva, scaricarono tutta la loro rabbia e malvagità sull’Agnello di Dio che, unico davvero innocente, prese su di sé il castigo di tutti e si immolò, affinché noi, per le sue piaghe, potessimo essere guariti (Cfr. Is 53, 5-7).

Le terribili frustate, che non risparmiarono nessuna parte del Suo purissimo corpo, se pur offuscarono la sua bellezza esteriore, ne misero ancor più in risalto quella interiore. Cosa spinse, infatti, il Figlio di Dio, che solo con un sguardo avrebbe potuto annichilire i suoi aguzzini, a lasciarsi maltrattare in quel modo senza emettere un lamento, se non una misericordia infinita, che lo rivela in modo eccelso come Verbo Incarnato? Solo Dio incarnato, infatti, poteva sopportare un tale supplizio continuando ad amare sino alla fine chi lo vessava, e a supplicare, anche appena prima di morire, il perdono al Padre celeste: “Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno” (Lc 23,34). Questa richiesta di perdono fu grande quanto il Cuore di Gesù. Abbracciava, infatti, non solo quei pochi uomini che lo stavano tormentando a morte, ma tutta l’umanità di ogni tempo, compresi coloro che lo ignorano o rifiutano, disprezzano o odiano, non rendendosi conto della sua infinita maestà e bontà divina.

Il mistero della flagellazione, si riallaccia in modo particolare all’espiazione che Gesù ha compiuto per riparare ogni forma di offesa contro la sacralità del corpo umano, chiamato ad essere, come ricorda San Paolo, “Tempio dello Spirito Santo” (Cfr. 1 Cor 6, 19); non solo omicidi e violenze di qualunque genere, ma anche quello spirito di vanità che spinge a un’eccessiva cura del proprio corpo per poi avvilirlo nel fango dell’impurità, che lo profana e banalizza riducendolo a mero oggetto di piacere. Dalla vanità all’iniquità, infatti, il passo è breve.

Gesù, per riparare tutto questo scempio, ha seguito il cammino contrario, proprio come si fa quando si scoglie un nodo; per cui fu mite come un agnello condotto al macello e puro come un giglio.

In tal modo ci guadagnò la grazia di riacquisire, se lo vogliamo, quel candore e quella bellezza interiore che non è destinata a svanire col passare degli anni, e che raggiungerà il suo massimo e definitivo fulgore proprio quando usciremo dal tempo per entrare nell’eternità.

 

 

 

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