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Dare senso al proprio lavoro

Vivere la fede sul posto di lavoro

di Sara Marello

Buongiorno mi presento: sono Sara, sono diventata mamma per la prima volta a 43 anni di Martina Maria, una bella e sana bambina, sono moglie di Enrico e donna lavoratrice in un Centro per l’Impiego genovese.

La mia fede, donata gratuitamente da Dio, mi ha sempre aiutata nella vita a organizzarmi in modo fruttuoso per operare scelte buone per me e per la mia famiglia e per proteggere la mia salute.

La realizzazione personale in famiglia e come donna di fede nel lavoro rinviano a caratteristiche profonde della mia identità e del mio rapporto con il mondo. Fatte chiare e comprese, sono portatrici di segnali e di ricerca di senso necessari alla realizzazione di equilibrio dello stato di vita. Direi quindi che il cammino interiore sui miei bisogni di senso al lavoro, di sviluppo personale e professionale si compia all’interno della mia vita familiare e sociale.

La ricerca di senso al lavoro si pone forse con più attualità oggi in un contesto post covid. La dottrina sociale della Chiesa dona due significati al lavoro. Il primo è obiettivo: si tratta dell’attività propriamente detta e della finalità dell’opera per cui si lavora (fabbricare degli oggetti, tenere una cassa, fare il bucato, dirigere una squadra…) o come nel mio caso, erogare servizi al lavoro per i disoccupati. Ciò mi permette di soddisfare i miei bisogni materiali e quelli della mia famiglia. Siccome però per la Chiesa il lavoro è inteso in senso più ampio e può essere remunerato o no, quando mi occupo della gestione familiare ed educo mia figlia, compio un vero lavoro.

Il secondo senso del lavoro è soggettivo: il compito è svolto da persona umana e mette in gioco la dignità della persona che, non essendo macchina, è libera, creatrice, può prendere iniziative e assumere responsabilità. Ognuno di noi ha bisogno di un lavoro per realizzarsi e per partecipare al bene comune.

Nella ricerca di senso, che anima i nostri contemporanei, c’è purtroppo il rischio di una certa idealizzazione. Si ha la tendenza a dimenticare che ogni lavoro contiene in sé una parte di sofferenza a partire dal peccato originale: “Con il sudore del tuo volto mangerai il pane” (Gn 3, 19) ovvero, dovrai faticare per procurarti il necessario per vivere, ma anche che il lavoro con gli altri non è sempre semplice; non per questo però ci si può esimere dal cercare di dare senso al proprio lavoro.

Il mio posto di lavoro mi permette di acquisire competenze tecniche, di crescere in maturità e umanità e di apprendere a vivere in società imparando per esempio a lavorare con gli altri in vista di un progetto comune, ad affrontare situazioni difficili, ad attraversare conflitti.

Il mio lavoro si iscrive in un’organizzazione più ampia (famiglia, associazione, ufficio) dove ho un ruolo ben preciso. Per esempio quando un disoccupato trova al Centro per l’Impiego progetti di ricollazione e presa in carico efficaci, il suo ringraziamento a fine colloquio rafforzerà la coscienza che il mio lavoro è ben fatto ed è importante per il bene comune della collettività.

Infine il lavoro è luogo di socializzazione straordinaria perché mi mette in contatto con gli altri e dona la possibilità di tessere amicizie  che possono durare nel tempo.

 

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